Il Brodo di Natale - il racconto di Giorgio Rosato per il contest
Pubblichiamo il primo dei racconti pervenuti per il contest gastroletterario "Il profumo dei ricordi".
Ricordiamo a tutti che il termine per l'invio dei racconti e la registrazione delle ricette è il 30 giugno. Trovate il bando qui.

Il Brodo di Natale
L’atmosfera natalizia è sempre stata legata a qualcosa di magico e affascinante. Ad ogni età e a qualsiasi latitudine. Nella mente di un bambino inoltre può lasciare a volte tracce indelebili che, col passare del tempo, si tramutano in bellissimi ricordi. Reminiscenze che ogni tanto tornano a galla, riaffiorando dalla moviola della fantasia come un provvidenziale antidoto agli affanni e alle inquietudini che affrontiamo ogni giorno.
Il fascino del presepe fatto in casa, il caleidoscopio degli archi di luci colorate nelle vie del paese e quello strano cubo di cartone azzurro che gli adulti chiamavano panettone, sono solo alcuni degli ingredienti peculiari del mio tradizionale menu di Natale quando ero bambino.
La preparazione del presepe era un vero e proprio rito al quale io e mio fratello iniziavano a lavorare fin dall’inizio di dicembre. Lo allestivamo sempre nel pianerottolo situato a metà strada delle rampe di scale che portavano alle camere da letto. E per consentire il nostro passaggio alla sera, occupava di solito un angolo del mezzanino addossato al muro.
Generalmente sul lato dal quale potesse essere avvistato in anticipo quando, salendo le scale prima di andare a dormire, tutti i componenti della famiglia potessero scoprirlo a poco a poco. Quasi a voler centellinare, a piccole dosi, le intense emozioni che riusciva a suscitare nel nostro animo. Senza contare l’orgoglio con il quale lo mostravano agli amici e ai parenti che venivano a trovarci. Naturalmente allora non esistevano le luci per la grotta della Natività o per la stella cometa, ma una volta mi venne l’idea di mettere una piccola candela in un piattino da caffè vicino a Gesù Bambino. L’effetto fu sorprendente, soprattutto sui miei amichetti, e mi sentii come se avessi vinto un Oscar per la fotografia in un film di Hollywood. Le statuine, tutte di terracotta, erano dipinte a mano da “Zì Nicola”, il lattaio del paese che ogni mattina consegnava il latte fresco in tutte le case trasportando gli inconfondibili bidoni di alluminio, stivati fino all’inverosimile a bordo della sua indistruttibile Ape a tre ruote che viaggiava sempre con i fanalini rotti.
Perfettamente funzionanti erano invece le lampadine delle luci colorate che addobbavano gli archi natalizi, presi a prestito dall’ultima festa patronale, che per tutto il mese di dicembre decoravano la via centrale dello struscio.
Un grosso viale che dalla chiesetta parrocchiale si snodava dritta tra le abitazioni del paese, trasformandosi nella bella stagione in una sorta di antesignano dei moderni canali social. Giovani, anziani e bambini la percorrevano in lungo e in largo più volte al giorno a tutte le ore, fermandosi a spettegolare con la comare di turno perennemente affacciata alle finestre del primo piano, o a suscitare l’invidia dei ficcanasi più irriducibili esibendo qualcosa di costoso acquistata chissà come nella vicina cittadina situata a una dozzina di chilometri dalla riviera adriatica.
Tra i beni di lusso dell’epoca figurava naturalmente anche il panettone che, sebbene già da qualche anno facesse capolino nelle prime edizioni di “Carosello”, era presente solo sulle tavole delle famiglie benestanti. In casa non mancava nulla, e lo stipendio di papà (tecnico specializzato presso un’azienda idroelettrica) era più che adeguato per mantenere dignitosamente una famiglia di quattro persone, ma non giravano molti soldi. Tuttavia ogni anno l’immancabile “zio d’America” (inossidabile e prestigiosa icona in molte famiglie) che tornava dal Venezuela per le vacanze natalizie ci regalava sempre un panettone. All’epoca c’era solo la versione classica, con canditi e uvetta, poiché prima del boom economico degli anni Sessanta non erano ancora approdate sul mercato tutte quelle varianti che troviamo oggi sugli scaffali della grande distribuzione. Io andavo pazzo per il panettone, soprattutto per i suoi profumi che evocavano sapori di benessere, atmosfere metropolitane e sogni di terra promessa.
Ma con l’arrivo del Natale c’era un altro elemento, forse il più caro perché intimamente legato all’amore per la mia mamma, scomparsa alcuni anni fa, che rievoca come nessun altro nella mia mente l’atmosfera più autentica e genuina della felicità della spensieratezza legata all’infanzia: il Brodo di Natale, quello classico dell’antica tradizione gastronomica abruzzese.  
Quando aprivo gli occhi la mattina del 25 dicembre, la mia cameretta era già permeata dai magici odori provenienti dalla cucina. Aromi squisiti, inconfondibili, unici e indimenticabili che, erompendo dai tegami e dalle pentole che borbottavano sul ferro rovente della vecchia stufa a legna, si addensavano per formare una lunga cometa aromatica che attraversava rapidamente il corridoio per incunearsi su per le scale come le suadenti note del pifferaio di Hamelin. Fino ad entrare nella mia stanza ed insinuarsi ancora più seducenti nelle narici di un bambino che si stava appena svegliando. Quel profumo, familiare e irresistibile, mi metteva subito di buonumore e suscitava sul mio viso un sorriso carico di serenità che lasciava preconizzare una giornata di allegria e di festa assieme ai miei cuginetti. Oltre ad avere l’effetto di una sveglia dai poteri straordinari che, senza ricorrere a trilli fastidiosi, mi rendeva estremamente solerte nell’alzarmi al più presto per raggiungere la cucina e aiutare la mamma a preparare il suo mitico Brodo di Natale. Gli ingredienti principali erano formati da un brodo di manzo con un mix di sedano, carote, cardi e patate, tagliati a pezzettoni, al quale veniva aggiunto un brodo di pollo (preparato a parte) e un’altra varietà di carne, quella di maiale, presente sotto forma di polpettine fritte grandi come olive. Quando il brodo era quasi pronto da servire, si aggiungeva la pasta fatta in casa (le sagnette, a forma di rombo, formate solo da acqua e farina) e, una volta spento il gas, si versava un uovo intero per ogni ospite che, grazie al calore del brodo, si trasformava in una coreografica e accattivante stracciatella unendosi agli altri ingredienti.
Io sapevo che arrivando in cucina la mia mamma aveva già preparato gli ingredienti di cui mi sarei occupato: le polpettine e la pasta. Consumata al volo la mia colazione (un energico zabaione a base di uovo sbattuto, latte zucchero e una schiuma incredibile, impossibile da ricreare anche con i moderni sifoni) prendevo uno sgabello e mi avvicinavo al tavolo. Nella mia postazione mi aspettava un enorme tegame di terracotta, che straripava carne di maiale macinata, e le sfoglie della pasta già tirate a regola d’arte.
Prima di iniziare quello che ormai era diventato il mio impegno fisso della mattina di Natale, mi tuffavo nel classico rituale che precedeva il mio intervento. Facendo attenzione a non rovesciare tutto, e a non sbilanciarmi troppo rischiando di cadere dallo sgabello, mi avvicinavo al vassoio della carne arrivando col naso a pochi millimetri dal trito di suino e, dopo un attimo di pausa e di concentrazione, simile a quella dei campioni di sci in procinto di lanciarsi dal trampolino olimpico, lasciavo  inebriare i miei recettori olfattivi. Una valanga di odori e fragranze defluiva velocemente attraverso le mie narici. In un insieme caotico e incalzante, dove tuttavia i vari ingredienti erano chiaramente identificabili: dai sentori selvaggi  della carne (macinata con la stessa macchinetta usata in estate per la salsa di pomodoro), esaltati dall’aroma dolciastro del vino cotto utilizzato per la marinatura all’inconfondibile e possente odore dell’aglio finemente sminuzzato, dalla freschezza del prezzemolo appena colto nell’orto di casa alle note fruttate e lievemente acidule dell’olio di oliva grezzo naturale prodotto nel frantoio del nonno. Una straordinaria sinfonia di profumi e aromi che in un effluvio crescente, poderoso come le note della Cavalcata delle Valchirie, segnava la prima tappa di quella esperienza multisensoriale, quasi wagneriana, che ci regalava puntualmente il Brodo di Natale della mia mamma. Sensazioni ulteriormente esaltate quando, al culmine della mia intensa fiutata, non riuscivo a trattenermi dal chiudere gli occhi per incrementare la concentrazione. A dire il vero la mia mamma, sempre con amore e con molta discrezione, mi aiutava spesso nella preparazione delle polpettine altrimenti la mia velocità di esecuzione avrebbe rischiato di trasformare il “Brodo di Natale” in un “Brodo di Santo Stefano”…  
E lo stesso avveniva anche per il taglio della pasta dove i rombi (fin da bambino ho avuto sempre grossi problemi con la geometria) raramente assumevano una forma regolare e precisa. Al contrario dell’esattezza delle ore scandite dall’antico orologio a pendolo situato in sala da pranzo che, quando batteva i dodici rintocchi di mezzogiorno, sanciva una sorta di “time out” nella preparazione del “Pranzo di Natale”. Da quel momento tutto doveva essere pronto e le uniche manovre consentite erano quelle relative alla mise en place del tavolo, allestito con i piatti e le stoviglie delle grandi occasioni, sapientemente abbinati con la tovaglia del corredo della nonna, tessuta in puro lino (nel classico colore écru) e ricamata a mano con motivi floreali. Anche il servizio aveva una scaletta precisa, e inderogabile, basata su un rigido protocollo non scritto che veniva tramandato da generazioni nella tradizione patriarcale dell’Italia centromeridionale di quegli anni. Il primo ad essere servito era il nonno, boss indiscusso e padrone del vapore della situazione, poi venivano nell’ordine il capo famiglia di casa (il mio papà), il primo figlio maschio del nonno (mio zio) e in seguito, in ordine sparso, le donne e i bambini. Io praticamente ero quasi sempre l’ultimo in fondo alla lista, ma la mia posizione sulla griglia di partenza natalizia non mi pesava affatto talmente era grande l’aspettativa per gustare il sospirato “Brodo di Natale”, un piatto memorabile che acquietava la fame, scaldava il cuore e nutriva l’anima. Grazie Mamma!
Giorgio Rosato
 
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